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critical texts by

ELEONORA  FIORANI

 Cano – “Benvenuti nel deserto del reale”

 

“Benvenuti nel deserto del reale” è la celeberrima frase che Morpheus, in un paesaggio di rovine, rivolge a Neo in Matrix, quando viene scollegato dal megacomputer. Una frase che Zizek utilizza a sua volta come emblematico titolo di un suo piccolo testo, scritto dopo l’11 settembre, che può essere assunto come silloge della realtà in cui ci troviamo a vivere e che ben si presta per accostarci alle opere che aprono la nuova fase della  pittura di Raffaello Canu, in arte Cano o Caneda, un artista che  viene dalla street  art e che, nel suo passaggio alla pittura, ha elaborato un proprio e singolare modo di farlo che trasporta la street art in nuovo linguaggio che scarta l’arte contemporanea costruita su archetipi concettuali. La sua pittura fuoriesce, infatti,  dalle convenzioni e dai canoni non solo della pittura classica,  ma anche di quella dei writer, che pur mantiene viva e ben presente, dato che ne ha fatto a lungo parte, nella mitica crew milanese 16k, e che, in quanto artista della street art, ha partecipato alla Biennale di Venezia del 2011, e ha esposto al Pac a Milano e in Brasile e colato colore dall’alto sulla strada e sugli edifici della Grande Mela per tracciare il suo segno su due lastre di plexiglas trasparente. Un modo di rendere viva la città diverso da quello della città sublime degli eventi. Ogni sua opera, infatti, sprigiona energia vitale, e insieme è espressione di emozioni intense, drammatiche e intime: lo fa nella decisa e forte fluidità dei tracciati segnici, nell’esplosione dei colori, nella predilezione dei rossi e nella profondità dei neri, nella passione per il giallo oro che rammemora le pitture trecentesche per veicolare il colore del sacro. Una passione per la materia, per i colori, in un linguaggio senza frontiere.

Ora, nelle recente serie di opere, ancora in corso, che virano al nero, declinato con i gialli e i blu, Cano investe il modo stesso di pensare la tela interessando la scelta dei materiali. Ha infatti per queste opere adottato i telai con cui Mimmo Rotella trasportava le sue tele per arrotolarvi a sua volta strisce di tela, segno e omaggio in opere in cui è in atto una sorta di memoria che ritesse i legami spezzati, malgrado la rottura. O le ha avvolte su una radice o su un pezzo di tronco, un objet trouvé, che ha raccolto, affascinato dal materiale e dalla forma per ridargli una nuova vita. 

La tela è poi stata trattata in modo tale da perdere i suoi connotati tradizionali per apparire rigida e lucente, con un voluto effetto di plastificazione, che richiama i manifesti o i telai dei camion, così da diventare essa stessa nomade e artificiale materiale metropolitano. E però ciò che connota più profondamente  le sue opere è una sorta di misura e di rigore, di eleganza del silenzio in una ritmica musicalità che dà forma all’energia e all’urlo. Certo la sua pittura parla del tessuto vivo e inascoltato della metropoli, intercetta la realtà urbana nelle sue pulsioni profonde, ma lo fa trasponendo un immaginario tratto e mutuato dalla propria sensibilità in qualcosa di più arcaico e insieme colto che reinventa gli immaginari massmediatici di cui si nutre la nostra società e con essi dialoga. 

Così, mentre innesta gli aspetti profondi e tragici  della vita, preserva aspetti emotivi ed esistenziali. E, mentre l’energia vitale si esprime sprigionando colate di petrolio inchiostro e acidi, l’originale materia pittorica di cui Cano si serve, portando alla saturazione dello spazio, dagli strati di colore emergono frammenti di figure o immagini: una mano chiusa con l’indice puntato, un volto, lo sguardo di un occhio, il dollaro che danno vita a fantasmi. L’effetto è di una poetica drammaticità, di un continuum di colore, che esclude il vuoto per una narrazione collegata all’attualità e alla memoria e ai fantasmi che da essa emergono, che prova a mantenere in vita ciò che la realtà ha mandato in pezzi. Mentre il messaggio rimane astratto in una mescolanza di immagini, colori, scritte che si sovrappongono in maniera inestricabile, lo spazio vuoto emerge dalla tela tagliata: come se il reale, il mondo, potessero  irrompessero nella tela o ogni opera fluttuasse in uno spazio senza frontiere. L’apparire del vuoto è uno scavo nel cuore della presenza, è rapporto con un’assenza e insieme è apertura, bagliore o lampo di ciò che la rappresentazione non mostra. 

E di ciò sono veicoli di senso le relazioni, che si istituiscono tra ciò che l’opera mostra nelle figure, in quel qualcosa che si affaccia, e i titoli che alludono all’invisibile,  o sono storie rapprese. Così l’opera che ci fa intravvedere il pugno chiuso con l’indice puntato ha per titolo “Io-Tu” a veicolare il rapporto desiderato con l’altro, il solo modo in cui l’io del soggetto e il tu dell’altro, in tutte le sue forme, può prendere ad essere. Chi è Io, chi è Tu, dato che l’uno non si dà senza l’altro?  E l’altro mi chiede conto di chi sono io. 

“La ballerina di Bombay” ha l’incanto di un volto che parla di paesi lontani, un sogno, un mito, un fantasma, veicolato dall’immaginario massmediale, o anche ha i caratteri di una fotografia ritrovata, di un ricordo, di un frammento di storia vissuta o solo sognata. 

In “Lo sguardo” in cui si intravvede, nel margine sinistro, un frammento di un volto, un occhio ci rimanda lo sguardo, innescando dinamiche di interazione con lo spettatore, dato che l’occhio, sede delle animazioni del corpo, è lo spiraglio da cui la sfera sensibile dell’io si affaccia al mondo. Chi è che guarda, dato che io che guardo sono guardato e sono costituito dallo sguardo dell’altro?  

“C’era un volta” rappezza i pezzi dell’immagine del dollaro, simulacro non solo del sogno americano, ma del modo d’essere occidentale, mandato in frantumi dall’attuale crisi di sistema e di valori, cosicché trasla di senso mentre sono i frammenti della nostra vita che dobbiamo rappezzare. O il loro fantasma. Anche il titolo volutamente rammemora il film di Sergio Leone e con esso le splendide colonne musicali che costituiscono la quarta dimensione dell’immagine.

Cinematografico è anche il titolo “Pioggia sporca”, una delle opere fatte di pure colate materiche, le altre sono “Drope” e “No”. Opere “notturne”, nere come è nera la nostra vita, che ci appare senza riscatto. Nere come gli immaginari popolati dell’oscuro signore. Anche in essi le tracce di un giallo dorato sono una sorta di fantasmi di una preziosità o di una pietas, che riscatta e salvaguarda dalla rovina.

C’è poi un aspetto più segreto e intimo, che é la musicalità che si percepisce nella struttura ritmica delle colate per lo più in verticale e raramente in orizzontale, cosicché ogni opera è insieme un testo di poesia dispiegata in immagini così come le sue poesie e i suoi testi musicali sono immagini cantate e musicate. E così avviene che si mantenga in tensione ciò che è qui e ciò che è altrove, così da farci aprire gli occhi su ciò che si dispiega al di là della visibilità, e da risvegliare lo sguardo con cui percepiamo e comprendiamo la realtà nostra e del mondo. 

 

Cano – “Welcome to the Desert of the Real”

Cano – “Welcome to the desert of the real” “Welcome to the desert of the real” is the famous phrase that Morpheus, in a landscape of ruins, addresses to Neo in Matrix, when he is disconnected from the megacomputer. A phrase that Zizek uses in turn as the emblematic title of a short text of his, written after September 11, which can be taken as an anthology of the reality in which we find ourselves living and which lends itself well to approaching the works that open the new phase of the painting of Raffaello Canu, aka Cano or Caneda, an artist who comes from street art and who, in his transition to painting, has developed his own and unique way of doing it that transports street art into a new language that discards contemporary art built on conceptual archetypes. His painting, in fact, goes beyond the conventions and canons not only of classical painting, but also of that of writers, which he still keeps alive and well present, given that he was part of it for a long time, in the legendary Milanese crew 16k, and that, as a street artist, participated in the Venice Biennale in 2011, and exhibited at the Pac in Milan and in Brazil and poured color from above on the street and buildings of the Big Apple to trace his sign on two sheets of transparent plexiglass. A way of making the city alive different from that of the sublime city of events. Each of his works, in fact, releases vital energy, and at the same time is an expression of intense, dramatic and intimate emotions: he does so in the decisive and strong fluidity of the sign paths, in the explosion of colors, in the predilection for reds and the depth of blacks, in the passion for golden yellow that recalls the fourteenth-century paintings to convey the color of the sacred. A passion for matter, for colors, in a language without borders.

Now, in the recent series of works, still in progress, that veer towards black, declined with yellows and blues, Cano invests the very way of thinking about the canvas by affecting the choice of materials. In fact, for these works he has adopted the frames with which Mimmo Rotella transported his canvases to roll up strips of canvas, a sign and homage in works in which a sort of memory is in action that reweaves the broken bonds, despite the break. Or he has wrapped them around a root or a piece of trunk, a found object, which he has collected, fascinated by the material and the shape to give it a new life.

The canvas has then been treated in such a way as to lose its traditional connotations to appear rigid and shiny, with a deliberate plasticization effect, which recalls posters or truck frames, so as to become itself a nomadic and artificial metropolitan material. And yet what most deeply characterizes his works is a sort of measure and rigor, an elegance of silence in a rhythmic musicality that gives shape to energy and scream. Certainly his painting speaks of the living and unheard fabric of the metropolis, intercepts urban reality in its deep impulses, but does so by transposing an imaginary drawn and borrowed from his own sensitivity into something more archaic and at the same time cultured that reinvents the mass media imaginaries that feed our society and dialogues with them. Thus, while the profound and tragic aspects of life are grafted, he preserves emotional and existential aspects. And, while the vital energy is expressed by releasing flows of oil, ink and acids, the original pictorial material that Cano uses, leading to the saturation of space, fragments of figures or images emerge from the layers of color: a closed hand with a pointed index finger, a face, the look of an eye, the dollar that 

give life to ghosts. The effect is of a poetic drama, of a continuum of color, which excludes the void for a narration connected to current events and memory and to the ghosts that emerge from it, which tries to keep alive what reality has shattered. While the message remains abstract in a mixture of images, colors, writings that overlap inextricably, the empty space emerges from the cut canvas: as if the real, the world, could burst into the canvas or each work floated in a space without borders. The appearance of the void is an excavation in the heart of the presence, it is a relationship with an absence and at the same time it is an opening, a flash or a gleam of what the representation does not show. And the relationships that are established between what the work shows in the figures, in that something that appears, and the titles that allude to the invisible, or are congealed stories, are vehicles of meaning of this. Thus the work that lets us glimpse the closed fist with the index finger pointing is entitled “I-You” to convey the desired relationship with the other, the only way in which the subject’s I and the other’s you, in all its forms, can come to be. Who is I, who is You, given that one does not exist without the other? And the other asks me who I am.

“The Bombay Dancer” has the enchantment of a face that speaks of distant lands, a dream, a myth, a ghost, conveyed by the mass media imagination, or it also has the characteristics of a rediscovered photograph, of a memory, of a fragment of history lived or only dreamed.

In “Lo sguardo” in which we can glimpse, in the left margin, a fragment of a face, an eye reflects its gaze back to us, triggering dynamics of interaction with the viewer, given that the eye, seat of the body’s animations, is the opening from which the sensitive sphere of the self looks out onto the world. Who is it that looks, given that I who look am looked at and am constituted by the gaze of the other?

“C’era un volta” patches together the pieces of the image of the dollar, a simulacrum not only of the American dream, but of the Western way of being, shattered by the current crisis of the system and values, so that it shifts in meaning while it is the fragments of our life that we must patch together. Or their ghost. Even the title deliberately recalls Sergio Leone’s film and with it the splendid musical scores that constitute the fourth dimension of the image.

The title “Pioggia sporca” is also cinematographic, one of the works made of pure material castings, the others being “Drope” and “No”. “Night” works, black as our life is black, which appears to us without redemption. Black as the populated imaginaries of the dark lord. In them too, the traces of a golden yellow are a sort of ghosts of a preciousness or of a pietas, which redeems and safeguards from ruin.

 

Then there is a more secret and intimate aspect, which is the musicality that is perceived in the rhythmic structure of the flows mostly vertical and rarely horizontal, so that each work is at the same time a text of poetry unfolded in images just as his poems and his musical texts are images sung and set to music. And so it happens that what is here and what is elsewhere is kept in tension, so as to make us open our eyes to what unfolds beyond visibility, and to reawaken the gaze with which we perceive and understand our reality and that of the world.

 

Eleonora Fiorani

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